Catania, 21 novembre 2014 – Il Giudice della Quarta Sezione Civile del Tribunale di Catania, Dott.ssa Concetta Grillo, con un’ordinanza depositata in questi giorni ha sospeso l’esecutività di un contratto di mutuo in virtù del quale la banca aveva intimato ad un consumatore il pagamento della complessiva somma di 146.279,89 € per residuo capitale in virtù di mutuo, rate arretrate, interessi di mora, diritti di commissione e conguaglio rischi cambio. L’ordinanza é stata emessa nel giudizio di opposizione a precetto prontamente opposto dal cliente della banca dopo che gli era stato notificato atto di precetto contenente l’intimazione di pagamento.
Nell’opposizione era stata evidenziata l’illegittimità delle pretese della banca con contestazioni specifiche delle singole voci di credito anche con il raffronto delle somme richieste in passato, con altro atto di precetto del 1993. Ed il Giudice ha osservato infatti che l’opponente ha dedotto “l’illegittimità del precetto sotto il profilo dell’eccessività delle somme richieste specificamente contestando le voci di credito di cui al precetto deducendo con specifico riferimento alla somma (superiore a 91.000 €) richiesta a titolo di interessi la genericità della pretesa, la mancata indicazione del tasso applicato e l’omessa indicazione della sorte capitale sulla quale gli interessi sarebbero stati maturati e l’entità delle somme pagate successivamente all’intimazione del primo precetto”.
Con la medesima ordinanza é stata disposta Consulenza Tecnica d’Ufficio al fine di quantificare il credito tenendo conto del contenuto del contratto sottoscritto dalle parti e dei versamenti effettuati anche successivamente alla notifica del primo atto di precetto, nonché di accertare se siano stati addebitati interessi superiori al tasso soglia ex lege 108/1996, legge 28.02.2001 e art. 644 c.p. per come eccepito nell’opposizione. Il Giudice, dopo aver rilevato che nel frattempo la banca ha eseguito pignoramento immobiliare sulla scorta dell’atto di precetto opposto, ha così sospeso l’esecutività del titolo, che adesso determinerà, in attesa che si faccia chiarezza, la sospensione anche della predetta procedura esecutiva che é stata intrapresa.
«Le banche continuano ancor oggi a richiedere indiscriminatamente a vario titolo somme non solo illegittime ma senza dare ragione dei criteri dei loro incomprensibili ed ingiustificati calcoli. Per tali motivi é importante che i consumatori reagiscano a tali deplorevoli comportamenti in tempo utile e senza perdere tempo» ha dichiarato l’avv. Carmelo Calì, Presidente di Confconsumatori Sicilia che assiste in giudizio il consumatore.

Si sono conclusi i lavori dell’incontro annuale tra Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti e le Regioni dal titolo “Cibo: educazione, politica, cultura”, tenutosi a Rimini, cui era presente anche Confconsumatori. I due giorni intensi di lavoro hanno portato alla stesura di tre documenti, contenenti linee guida da tradurre in iniziative concrete in merito ai 3 temi approfonditi: la prevenzione e lotta allo spreco alimentare; l’introduzione dell’educazione al consumo nel sistema educativo e le City food policies da adottare nelle città.
Emettere un assegno postdatato sapendo che non c’è e non ci sarà adeguata copertura della somma, integra il reato di truffa aggravata.
Questo è quanto statuito dalla Seconda Sezione della Cassazione Penale con la sentenza n. 33441 del 29 luglio 2015.
Nella vicenda giudiziaria in commento un imprenditore veniva condannato per il delitto di truffa aggravata perchè, tacendo le reali condizioni economiche in cui versava la propria ditta, si era fatto consegnare il materiale ordinato al fornitore mettendo a garanzia del pagamento degli assegni postdatati e, inoltre, facendo leva sulla sua notorietà e referenzialità a livello economico.
Come è noto, in tema di truffa contrattuale, il pagamento di merci effettuato mediante assegni di Conto Corrente privi di copertura, concorre ad integrare l’elemento materiale del reato, qualora sia accompagnato da un malizioso comportamento dell’agente nonché da fatti e circostanze idonei a determinare nella vittima un ragionevole affidamento sul regolare pagamento dei titoli (Cfr. Cass. Sez. II, sent. n. 10850/2014).
Di conseguenza, quindi, per integrare il raggiro idoneo sia a trarre in inganno il soggetto passivo che ad indurre alla conclusione del contratto, è necessario quid pluris tale da determinare nella vittima un ragionevole affidamento sull’apparente onestà delle intenzioni del soggetto attivo e sul pagamento degli assegni (Cfr. in tal senso anche Cass. Sez. II, sent. n. 46890/2011).
Per quanto riguarda l’emissione di assegni postdatati per il pagamento di merci, invece, emettere assegni postdatati non integra nessun illecito penale e il mancato pagamento configura un inadempimento contrattuale che giustifica un’azione civile per il recupero del prezzo e per il risarcimento del danno.
Tuttavia siffatto comportamento assume rilevanza penale nel momento in cui le rassicurazioni sulla possibilità di pagare l’assegno alla data di scadenza (nella piena consapevolezza che, invece, non c’è e non ci sarà adeguata copertura) sono tali da indurre la vittima a credere sulla regolarità nel pagamento dei titoli. Tali condotte, secondo la Suprema Corte, vanno qualificate come artificio o raggiro e quindi devono essere ritenuto idonee a determinare un ragionevole affidamento sulla apparente onestà delle intenzioni del soggetto attivo e sul pagamento degli assegni.
Per concludere, quindi, questo è il principio di diritto espresso nella Sentenza in esame:
<<Integra il delitto di truffa, perché costituisce elemento di artificio o raggiro, la condotta di consegnare in pagamento, all’esito di una transazione commerciale, un assegno di conto corrente bancario postdatato, contestualmente fornendo al prenditore rassicurazioni circa la disponibilità futura della necessaria provvista finanziaria, inducendo in errore l’altro contraente sulla consistenza patrimoniale ed economica dellacontroparte>>

Occorre fare chiarezza sul pagamento delle cartelle esattoriali di importo inferiore a 300 euro, in quanto “false voci” confondono le idee dei contribuenti che credono che non debbano essere pagate , a causa di notizie non veritiere diffuse in rete, inerenti una presunta sanatoria statuita dalla Legge di Stabilità.
La succitata norma, quindi, non prevede alcuna sanatoria, ma dispone semplicemente che per le cartelle di importo inferiore a 300 euro, emesse dal 2000 al 2014, viene meno il controllo dell’Ente creditore ( Erario, Inps, Comuni, Enti territoriali) sull’operato di Equitalia.
Nello specifico, Equitalia ogni 3 anni, deve rendicontare all’Ente ciò che concerne il recupero dei crediti inerenti le cartelle iscritte a ruolo. Con la nuova Legge di Stabilità, la differenza in merito a questo iter sta nel fatto che mentre prima ( ed oggi ancora per le cartelle di importo superiore a 300 euro) l’Ente operava un controllo su tutte le possibili procedure esecutive messe in atto da Equitalia per la riscossione dei crediti, al fine di accertarsi che tutti i mezzi possibili fossero stati messi in atto, oggi, una volta che Equitalia, al termine dei 3 anni trasmette all' Ente la “comunicazione di inesigibilità”, lo stesso non può più operare alcun controllo e dovrà direttamente cancellare i relativi importi dal bilancio.
Ne consegue quindi che i contribuenti dovranno continuare a pagare le cartelle iscritte a ruolo di importo inferiore a 300 euro, mentre potranno non pagare solo quelle che entro i 3 anni dall’invio, Equitalia non fosse riuscita a recuperarle, divenute quindi inesigibili ovvero non riscuotibili.
Il contribuente in tal caso non dovrà far nulla, perché il debito viene cancellato automaticamente.
La Confconsumatori offre assistenza ai contribuenti destinatari delle suddette cartelle, al fine di fornire chiarimenti in merito, contattando il numero 349.4669253 ( Dott.ssa Alessandra Favia) per verificare se la cartella sia o meno riscuotibile.
Roma, 12 novembre 2015 – Ieri, Confconsumatori Lazio è stata ammessa come parte civile nel procedimento penale a carico di Maurizio Venafro, ex capo di Gabinetto del presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, e, soprattutto, di Mario Monge, dirigente della cooperativa Sol.Co., accusati di turbativa d’asta nell’ambito della maxi inchiesta “Mafia Capitale”. Il Gup Giovanni Giorgianni del Tribunale Penale di Roma ha ammesso la costituzione di parte civile di Confconsumatori.
La procura contesta a Venafro e a Monge illeciti legati all’assegnazione, nel 2014, di un appalto regionale.Per l’accusa, i due avrebbero tentato di pilotare l’assegnazione del mega appalto da 60 milioni del servizio “Recup”, lo sportello per le prenotazioni di tutte le prestazioni sanitarie regionali, poi sospeso dalla Regione stessa con i primi arresti del dicembre 2014. Le condotte illecite sono qualificate come reati-fine della più ampia condotta associativa di stampo mafioso (ex art. 416 bis del codice penale) operante su Roma e nel Lazio, altrimenti nota come “Mafia Capitale” ascritta agli altri complici per i quali si procede separatamente. Anche in questo secondo filone Confconsumatori ha depositato la richiesta di costituzione di parte civile.
«Seppure con le dovute cautele per un processo ancora in corso – afferma l’avvocato Barbara d’AgostinoPresidente di Confconsumatori Lazio – la vicenda, nella quale, a quanto consta, sono coinvolti alti funzionari della Pubblica Amministrazione, rappresenta, in modo drammatico un sistema corrotto in ambienti insospettati, che al contrario dovrebbero assicurare la gestione corretta e pulita dei soldi pubblici. Particolarmente importante, inoltre, è la conferma da parte del Tribunale della legittimazione di Confconsumatori Federazione Regionale Lazio a rappresentare interessi diffusi in un processo penale».
«Si tratta di un fondamentale riconoscimento del ruolo di Confconsumatori – aggiungono gli avvocati Chiara de Bellis ed Eleonora Centonze, incaricate per la costituzione di parte civile – quale associazione che agisce a tutela dell’interesse generale e comune di un’intera categoria di utenti, che fruiscono quotidianamente dei servizi e dei beni pubblici erogati dall’apparato della Pubblica Amministrazione. Deve essere garantito il corretto esercizio della funzione amministrativa in ottemperanza ai principi inderogabili di legalità, di buon andamento, di trasparenza e di imparzialità, principi costituzionalmente sanciti che devono ispirare l’attività degli apparati burocratici statali oltreché quella degli enti pubblici territoriali ed istituzionali. Inoltre è una decisione che si pone in piena continuità con quanto già affermato dalla Suprema Corte di Cassazione in numerose pronunce (da ultimo con la sentenza numero 35104 del 22 giugno 2013)».
È online sul sito del Comune, a questo link, l’avviso per la concessione di contributi economici in favore dei nuclei familiari residenti nella città di Bari che abbiano 4 o più figli minori e reddito ISEE pari o inferiore a 20mila euro.

L’art.2 della legge afferma il principio generale che le funzioni oggi gestite dalle Province sono trasferite alla Regione. Tuttavia, chiarisce che sarà solo con un successivo decreto del Presidente della Giunta, che vi sarà l’attribuzione effettiva delle funzioni oggetto di riordino.
E’ previsto che, sempre in futuro, la Regione ricollocherà presso di sé il personale trasferito a seguito delle attribuzioni delle funzioni.
Il personale della polizia provinciale è invece disposto che sia trasferito ai Comuni.
L’art.3 prevede che la Regione possa attribuire le funzioni non fondamentali alle Province ed ai Comuni, previa intesa interistituzionale futura e la sottoscrizione di convenzioni future.
L’art.4 chiarisce che le funzioni relative alle politiche del lavoro continuano ad essere esercitate dalle Province fino alla futura entrata in vigore di norme di riforma sul settore e che la Regione disciplinerà con una futura legge regionale, le funzioni di polizia provinciale e la collocazione del relativo personale.
L’art.5 dispone che le funzioni oggetto di riordino, il trasferimento del personale e dei beni connessi, avverrà con futuri provvedimenti della Giunta.
L’art.6 chiarisce che, sino al completamento del processo di trasferimento delle funzioni, le stesse continuano ad esser esercitate dagli enti attualmente titolari (quindi anche dalle Province).
L’art. 7 afferma che con provvedimenti futuri, la Giunta stabilirà i criteri e le modalità di trasferimento delle risorse finanziarie, umane e strumentali, connesse al riordino delle funzioni.
L’art.9 afferma il giusto principio che la Regione incentiva l’esercizio in forma associata delle funzioni dei piccoli Comuni e stabilisce misure premiali per incentivare l’esercizio in comune, ma rinvia a successivi provvedimenti di Giunta l’indicazione concreta di tali premialità.
L’art. 10 afferma il sacrosanto principio che si “favorisce” il riordino delle società partecipate delle Province, ed affida agli Enti il compito di redigere entro sei mesi un Piano di ricognizione delle agenzie e società partecipate, nonché un programma di dismissione delle partecipazioni, in società che hanno ad oggetto servizi e funzioni estranee alle competenze su servizi essenziali previste dalla legge. Il Piano dovrà illustrare le modalità e i tempi di attuazione del programma di dismissione.
L’art.11 fissa il termine del 30.7.2016 per il trasferimento effettivo delle funzioni di cui sopra. Inoltre, molto opportunamente, prevede un potere sostitutivo della Regione nei confronti degli Enti locali che si dovessero rendere inadempienti, rispetto agli obblighi fissati.
Una legge giusta nei principi e nelle finalità, ma poco incisiva, sia perché rinvia totalmente al futuro e sia perché poteva osare di più in materia di soppressione delle partecipate. L’unica conseguenza concreta e attuale di questa legge è che la Puglia ha giustamente evitato il commissariamento a cui sarebbe stata sottoposta se non avesse legiferato in materia. Per il resto, poiché in sostanza è come se fosse una legge delega, il giudizio vero potrà arrivare solo, se e quando saranno emessi gli atti attuativi. Di certo auspichiamo che il legislatore regionale ricordi, che la sostenibilità del welfare passa per il risparmio della spesa pubblica inutile.
di Antonio Pinto
Parma, 5 novembre 2015 – In questi giorni gli sportelli di Confconsumatori ricevono molte richieste da parte di cittadini che si sono trovati tra le mani una comunicazione da parte di Unicredit in materia di anatocismo. La nota è stata inviata dalla Banca a seguito del provvedimento inibitorio del Tribunale di Milano che, accogliendo la richiesta dell’associazione Movimento Consumatori, ha imposto a Unicredit di comunicare ai propri clienti e alla cittadinanza (tramite i quotidiani nazionali) il contenuto dell’ordinanza, con la quale il Giudice ha inibito alla banca «Qualsiasi ulteriore forma di anatocismo degli interessi passivi con riferimento ai contratti di conto corrente già in essere o che verranno in futuro stipulati con consumatori, nonché di predisporre, utilizzare e applicare clausole anatocistiche nei predetti contratti».
Confconsumatori comunica che si stanno moltiplicando le pronunce di condanna delle Bancheche hanno agito in modo analogo ad Unicredit e, anche alla luce di questo, ben 12 associazioni dei consumatori hanno presentato un documento alla Banca d’Italia, con il quale chiedono di attuare nella delibera del CICR (Comitato Interministeriale del Credito e Risparmio) l’articolo 120 Tub che dal 2014 vieta l’anatocismo bancario.
La recente pronuncia del Tribunale di Milano non fa che ribadire il divieto di anatocismo sancito dalla Legge di Stabilità 2014 (in vigore dall’1 gennaio 2014) e confermato dalla Cassazione.
«In attesa dell’emanazione della delibera del CICR, che ci auguriamo accolga integralmente la richiesta delle associazioni, – commenta la Presidente di Confconsumatori Mara Colla – l’unica cosa certa è che i consumatori che si sono visti applicare illegittimamente interessi passivi dal 1° gennaio 2014, possono chiedere al proprio istituto di credito la restituzione del maltolto e Confconsumatori, da tempo attiva sull’argomento, ha già avviato diverse azioni in questo senso attraverso i propri sportelli territoriali».
La Suprema Corte, con la sentenza 22803/2015 del 9 novembre, ha chiarito che è valida la delega conferita ad un funzionario e che può essere conferita con atto proprio o con ordine di servizio. Ciò che rileva però è il contenuto della delega. Affinché la delega si valida e possa concretamente identificare il soggetto autorizzato dal direttore regionale o provinciale a un determinato compito, in base anche alle previsioni del Codice civile, essa deve: a) avere forma scritta; specificare le esigenze di servizio che la motivano; b) indicare l’ambito di applicazione e i suoi limiti; c) riportare le generalità della persona delegata; circoscrivere la durata (che dovrebbe essere determinata).
L'avv. Dario Barnaba di Confconsumatori ricorda che le modalità di redazione dell’atto di delega sono state oggetto di una direttiva emanata a livello centrale nel 2010, nella quale si ricorda agli uffici l’esatto contenuto che tale atto deve contenere, non ammettendosi deleghe in bianco (cioè alla funzione, tantomeno non circoscritte nel tempo).
In genere invece, così come avvenuto nel caso oggetto della sentenza della Corte di Cassazione, gli uffici in giudizio allegano provvedimenti che si limitano a individuare i criteri per conferire la delega: viene così indicata la sola qualifica professionale del funzionario potenzialmente destinatario della delega, senza però alcuna precisazione del nome di chi effettivamente rivesta tale qualifica.
Ad esempio, in alcuni casi, emerge che il direttore provinciale ha genericamente affidato ai diversi capo ufficio (senza alcuna indicazione del nome) la firma degli atti, dividendoli per tipologia (persone fisiche, imprese, professionisti, eccetera) e/o per valore. Si tratta così di atti generici privi dei nominativi dei soggetti delegati dai quali non è possibile, né per il contribuente, tantomeno per il giudice, verificare se quel determinato dirigente o funzionario - che ha sottoscritto per delega l’atto impugnato - ne avesse effettivamente la potestà.
Il Tribunale di Bari ha integralmente accolto la domanda di risarcimento di una signora, assistita dall’avv. Alessandra Taccogna di Confconsumatori, la quale inciampando in una buca presente in una strada del Comune di Bitonto, causata dalla mancanza di due mattonelle di rivestimento del marciapiede, si procurava diversi danni fisici, come certificato dal Pronto Soccorso, dove la medesima veniva prontamente accompagnata dai soccorritori.
Precisamente il Tribunale ha ribadito che, per costante Giurisprudenza della Suprema Corte, l'Ente pubblico proprietario delle strade ha l'obbligo della manutenzione di esse ex art. 2043 c.c., oltre che l'obbligo della custodia ex art. 2051 c.c..
L'Ente proprietario delle strade è, quindi, tenuto alla manutenzione delle stesse e la non conformità dello stato della manutenzione della strada pubblica è fonte di responsabilità della P.A., se determina l'insorgere di una situazione di pericolo, con i caratteri propri dell'insidia (Cass. 15224/2005).
La proprietà pubblica del Comune sulle strade comporta, tuttavia, non solo l'obbligo dell'Ente alla manutenzione, ma anche quello della custodia, con conseguente operatività nei confronti di esso, della presunzione di responsabilità ex art. 2051 c.c., nel caso abbia omesso di vigilare per impedire danni a terzi (Cass. 11749/1998).
Orbene, nel caso di specie sono stati inconfutabilmente riscontrati gli elementi della situazione di pericolo, con i caratteri dell'insidia non visibile e perciò imprevedibile.
E' stata, infatti, provata la responsabilità del Comune di Bitonto, nella causazione dei danni subiti dalla signora, per il precario posizionamento delle mattonelle del marciapiede che erano instabili e traballanti ed anche mancanti e non consentivano, assolutamente, da parte dell'attrice, la tempestiva percezione dell'insidia, particolarmente subdola. La c.t.u. ha confermato, altresì, la compatibilità delle lesioni riportate con la dinamica dell'evento lesivo, come descritto in atti e il Tribunale di Bari ha riconosciuto, conseguentemente, un risarcimento danni, pari ad €. 6.928,46, oltre rivalutazione monetaria ed interessi compensativi sulla somma stessa. Ha inoltre, condannato il Comune al pagamento integrale delle spese legali.
Come riferito dall’avv. Taccogna: "i cittadini, in casi simili a quello descritto, devono conoscere i loro diritti e sapere che, in base alle norme e sentenze in materia, possono essere integralmente risarciti per i danni subiti e per le spese sostenute".
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